
L’espressione Doppio malto è stata introdotta dal legislatore italiano nel 1962 (Legge n. 1354) per definire una birra di tenore alcolico elevato. (Titolo alcolometrico superiore a 3,5% e un “grado Plato” pari o superiore a 14,5). Quest’ultima unità di misura indica la densità di estratto di zuccheri disciolti nel mosto prima della fermentazione.
Ma perché sessant’anni fa il legislatore italiano ha ritenuto così importanti tali parametri? Perché è stata approvata la classificazione delle birre nelle cinque storiche categorie “birra analcolica”, “birra leggera”, “birra”, “birra speciale” e “birra doppio malto”? La risposta è più da funzionario del Ministero delle Finanze che da Mastro birraio: perché esiste una tassa che cresce in maniera direttamente proporzionale al grado alcolico e al “grado Plato”, cioè al contenuto di zuccheri.
Parliamo quindi di una birra con una gradazione alcolica probabilmente (ma non necessariamente) medio-alta, per la quale viene utilizzata una consistente quantità di malto, ma di certo non “doppia” rispetto a una birra classica. Inoltre non è per forza di colore scuro o ambrato: il colore della birra infatti non dipende dalla quantità di malto presente, ma dal suo livello di tostatura (la birra è più scura quando i malti molto tostati).
Semplicemente, quando la ordiniamo o gustiamo, abbiamo davanti una birra che risponde a dei criteri numerici e burocratici e non – come forse si pensa – a categorie culturali e sensoriali: un grado alcolico maggiore di 3,5% e un grado saccarometrico maggiore di 14,5. Infine, va sempre ricordato che la definizione “birra doppio malto” è solo italiana. Dunque non la troverete sul menu di un pub di Dublino o nella carta delle birre di una bierstube di Dortmund.