
Davanti a un alimento o un piatto cucinato, oppure quando stiamo per assaggiare una specialità gastronomica, il consiglio è uno solo: cerchiamo di usare, quando possibile, tutti e cinque i sensi. Solo in questo modo la conoscenza del prodotto e le sensazioni che scaturiranno dall’assaggio saranno ricche e profonde. In una parola: piacevoli.
Dolce: viene riconosciuto come elemento nutritivo da una parte remota del cervello e la sua percezione è influenzata dall’aspetto e dalla temperatura a cui viene servita.
Birre scure, servite a temperature tendenzialmente alte, daranno con più probabilità maggiori sensazioni di dolcezza rispetto a birre ugualmente dolci, ma chiare e fredde al palato. Stili come le Dunkel, le Bock, le Dubbel e le Barely Wine sono caratterizzati da una forte componente zuccherina, che si declina in note di frutta candita e caramello.
Acido: genera un aumento della salivazione e conferisce una piacevole sensazione di pulizia e dissetamento. La birra è di base una bevanda mediamente acida con un pH tra 4 e 4.5, ma le birre definite “acide” raggiungono pH tra 3.4 e 3.9. Si va quindi da un’acidità di accompagnamento come nelle Weizen o nelle Blanche a un’acidità fortemente caratterizzante come nello stile Lambic. Più l’acido sale, più la temperatura di servizio si deve abbassare.
Salato: nella birra è poco presente se non nello stile Gose, dove l’acqua salata è uno degli ingredienti principali. Potrebbe manifestarsi anche quando vengono utilizzate acque molto ricche di sali minerali. A basse concentrazioni, il salato amplifica il dolce e tende a diminuire l’amaro.
Amaro: scaturisce quasi sempre dagli alfa-acidi del luppolo e talvolta può essere provocato dal legno giovane nelle fermentazioni spontanee. Le IPA e le AIPA ne sono un esempio calzante: qui infatti l’amaricante è spesso accompagnato da note vegetali, floreali e balsamiche, proprie dei terpeni del luppolo. L’alta temperatura ne amplifica la percezione, per cui le birre amare si servono tendenzialmente fredde.
Umami: il “gusto dado” o “parmigiano”, come si è soliti definirlo, venne teorizzato nel 1825 dal gastronomo francese Jean Anthelme Brillat-Savarin e codificato nel 1908 dal chimico giapponese Kikunae Ikeda. L’umami è generato dai Sali dell’acido glutammico, un amminoacido presente nelle proteine. È percepibile in quelle birre che hanno subito un invecchiamento prolungato (Stout, Old Ale, Lambic e Gueuze), in cui si avvertono sentori riconducibili alla carne e, in casi estremi, note di salsa di soia.
* “Che gusto ha?” “Di umami”. Un tempo solo in Giappone era possibile immaginare uno scambio di questo tipo. Oggi invece sono sempre di più anche in occidente le persone (e non solo gli chef rinomati) che riconoscono le caratteristiche del “quinto sapore”. Ma di cosa si tratta? Di un sapore intenso (nella lingua giapponese “umani” significa “saporito”), inedito e diverso dai quattro sapori canonici (dolce, amaro, salato, acido). Lo studioso Kikunae Ikeda all’inizio del Novecento riconobbe per primo l’alta quantità di questo sapore nelle alghe kombu, ricche di glutammato monosodico.
L’Umami Information Center lo definisce come “un gusto sapido e piacevole che viene dal glutammato e da diversi ribonucleotidi, che si trovano naturalmente in carne, pesce, verdura e prodotti lattiero-caseari». Il gusto umami non riguarda infatti soltanto la sola cucina giapponese, ma può essere riconosciuto in prodotti occidentali, e italiani in particolare, dalle sardine ai broccoli, dai pomodori al Parmigiano Reggiano.